L’istituto, attualmente disciplinato dal c.d. Codice Antimafia (artt. 24 e 25, D.lgs. 159/2011), prevede che –per alcune categorie di persone ritenute pericolose- sia possibile procedere alla confisca dei beni, a prescindere da un procedimento penale in corso o da una condanna, qualora sia palese una sproporzione tra il proprio reddito e i beni di cui si risulta essere titolari, o avere la disponibilità, oppure nel caso in cui tali beni risultino essere frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego.
La ‘pericolosità’ –soltanto genericamente definita dal legislatore- è stata definita in diversi modi dalla dottrina come quella “qualità, attitudine o proclività” capace di riflettere l’insieme delle inclinazioni di un soggetto.
La ratio legis sembra essere stata condivisa dalla giurisprudenza, la quale tenta di ampliare il getto della norma fino a farvi rientrare anche i casi di evasione fiscale e di corruzione (Cfr. Cass. pen., Sez. I, n. 32032/2013).
In riferimento al requisito soggettivo della pericolosità si distinguono, nella normativa, due classi ovvero la c.d. pericolosità qualificata (nella quale rientrano i soggetti ritenuti partecipi di associazioni per delinquere di stampo mafioso o indiziati di gravi delitti) e la c.d. pericolosità semplice o generica (riferibile a quei soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi o che abitualmente vivono con i proventi delle attività delittuose).
Tralasciando volutamente altri aspetti tecnici della disciplina, si vuole porre l’attenzione sul recente intervento delle Sezioni Unite volto a chiarire la natura dell’istituto (Cass. pen., Sez. Un., 2 febbraio 2015, n. 4880).
Nello specifico il quesito posto all’attenzione della Corte era il seguente: “Se in conseguenza delle modifiche introdotte dal d.l. n. 92 del 2008 (conv. Dalla legge n. 125 del 2008) e dalla legge n. 94 del 2009 all’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965, la confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione possa essere ancora equiparata alle misure di sicurezza o abbia assunto connotati sanzionatori e se, quindi, ad essa sia applicabile, in caso di successione delle leggi nel tempo, la previsione dell’art. 200 c.p. o quella di cui all’art. 2 c.p.”
Dalla formulazione del quesito si può ben notare la diversità delle conseguenze pratiche derivanti dalla scelta a favore di una natura preventiva ovvero sanzionatoria . La disciplina in materia è infatti differente: mentre l’art. 2 c.p. dispone che nessuno può essere punito per un fatto che al tempo in cui lo ha commesso non costituiva reato, l’art. 200 c.p. prevede che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al momento della loro applicazione.
Così gli ermellini, ripercorrendo l’evoluzione legislativa e richiamando alcune pronunce della Corte di Strasburgo hanno ritenuto preferibile optare per una natura dell’istituto praeter delictum e quindi parlare dei suoi “effetti sanzionatori solo in senso del tutto atecnico” non risiedendo il nucleo del provvedimento patrimoniale nel delitto o nel relativo provento ma nelle qualità del soggetto e nelle modalità di acquisizione del bene.
Nel caso in cui la misura avesse natura sanzionatoria, continua la Corte, sarebbe incostituzionale l’applicazione dell’istituto ai danni di eredi e aventi causa.
Concludendo, in risposta al quesito proposto, le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che le modifiche introdotte all’art. 2-bis della legge n. 575 del 1965 e dalle leggi n. 126 del 2008 e n. 95 del 2009 non hanno modificato la natura preventiva della confisca emessa nell’ambito del procedimento di prevenzione, con la conseguente validità dell’assimilazione alle misure di sicurezza e, dunque, l’applicabilità, in caso di successione di leggi nel tempo, della previsione di cui all’art. 200 c.p. secondo il quale “Le misure di sicurezza sono regolate dalle legge in vigore al tempo della loro applicazione”.