La massima della Cassazione offerta dall’ordinanza del 22 settembre 2016, n. 18619 prende le mosse da un’episodio tragico avvenuto sulle spiagge molisane nell’estate del 1997 allorquando un giovane decedeva per annegamento.
I congiunti della vittima spiegavano azione di risarcimento contro il Comune ove era ubicato il lido adducendo quale motivazione il fatto che l’amministrazione era responsabile della custodia del bene (spiaggia e mare) da cui era scaturito l’evento luttuoso.
Gli attori avevano la meglio sia in primo grado che in appello ed in particolare la Corte d’Appello di Campobasso spiegava nelle motivazioni che la responsabilità del Comune derivava dal fatto di essere custode della spiaggia e del mare antistante e, ancor più gravemente, non aveva ottemperato all’ordine impartito dalla capitaneria di porto di segnalare con appositi cartelli la pericolosità del tratto di mare.
Tuttavia la Corte di Cassazione ribaltava la sentenza della corte di merito motivando che il mare di per sè non è un bene suscettibile di custodia ai sensi del 2051 c.c. e che la persona capace di intendere e volere che si esponga volontariamente ad un rischio grave e percepibile con l’uso dell’ordinaria diligenza, tiene una condotta che di per sé costituisce causa dei danni ad essa stessa eventualmente derivati al punto da rendere irrilevante l’omessa segnalazione del pericolo da parte di chi avrebbe dovuto provvedervi.
I parenti della vittima non demordevano e proponevano nuovamente ricorso innanzi alla Corte di Cassazione tramite l’istituto della revocazione, evidenziando come la sentenza della Suprema Corte fosse in aperto contrasto con l’interpretazione della Corte di Strasburgo circa l’art. 2 della CEDU ove é sancito il diritto alla vita di ogni persona.
La Corte di Cassazione interrogata sul punto, con l’ordinanza in questione, esclude la possibilità di agire in revocazione invocando le norme CEDU in quanto non ciò non è contemplato in nessuna delle ipotesi previste da detto istituto.
La Suprema Corte, tuttavia, nel motivare il rigetto, spiega come nei casi come quello in oggetto sia necessario procedere ad una valutazione ed ad un bilanciamento degli interessi in quanto “la tutela del diritto alla vita da parte dei pubblici poteri non può spingersi al risarcimento dei danni derivanti dalla condotta volontaria, qualificata unica causa della lesione di quel diritto, del titolare di diritto stesso”.
Pertanto anche dal punto di vista sostanziale il ricorso dei parenti della vittima non poteva che essere dichiarato inammissibile.