Dalla lettura del Decreti legislativi nn. 7 e 8 del gennaio 2016 emerge il mancato esercizio della delega in riferimento al reato di clandestinità di cui all’art. 10-bis D.Lgs. n.286/1998 che incrimina la condotta del “fare ingresso” o del “trattenersi” nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del Testo Unico dell’immigrazione nonché della disciplina relativa ai soggiorni di breve durata.
In particolare non sono passate di certo inosservate -agli occhi attenti degli addetti ai lavori- le considerazioni espresse dal Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo.
Il mancato esercizio della delega è stata di certo un’occasione persa per migliorare il sistema giustizia, in specie alla luce di alcune considerazioni.
In primis, non può trascurarsi il notevole impatto quantitativo che anzidetto reato ha sul carico giudiziario complessivo, oltre alla pressoché ‘totale’ infruttuosità della sanzione pecuniaria per esso prevista (ammenda da 5.000 a 10.000 euro).
Senza tacer dell’incidenza negativa dovuta alla circostanza che nella stragrande maggioranza dei casi i soggetti imputati ‘non sono reperibili né tantomeno rintracciabili’ in quanto, appunto, clandestini ‘irregolari’. E come se non bastasse, a seguito spesso di infruttuose ricerche e di infiniti rinvii disposti al fine di effettuare ulteriori indagini, la pena prevista per tali soggetti (veri e propri fantasmi) è di natura pecuniaria (come se un clandestino ‘irregolare’ fosse titolare di un conto corrente bancario o in possesso di beni pignorabili).
L’ulteriore inconveniente che è stato opportunamente segnalato dagli operatori del diritto (ma non recepito) riguarda l’impossibilità –per l’autorità giudiziaria- di acquisire, nei confronti dei clandestini, le informazioni utili ai fini dell’accertamento del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a carico dei trafficanti di esseri umani.
Tanto è causato dal fatto di dover principalmente considerare tali clandestini come indagati del reato di cui all’art. 10-bis (immigrazione clandestina), con la conseguente necessaria applicazione della disciplina di garanzia prevista per gli indagati di ‘reato connesso’.
Meccanismo quest’ultimo ribadito anche dalla Cassazione la quale ha di recente affermato che “nell’ambito del procedimento penale a carico degli ‘scafisti’ (…) i ‘migranti’ trasportati sul natante vanno sentiti ex art. 351, co.1, c.p.p., con l’assistenza del difensore, in quanto indagati per il reato di clandestinità (..) con la conseguenza che le dichiarazioni irritualmente assunte non sono utilizzabili”(Sez. I, 19 marzo 2015, Procura della Repubblica Tribunale di Salerno – procedimento ALWATE e altri).
Queste in sostanza sono le ragioni che avrebbero dovuto far propendere il legislatore nella direzione di una depenalizzazione del reato di clandestinità -stante l’impossibilità di una sua attuazione concreta- prediligendo, al contrario, un’intensificazione della perseguibilità dei c.d. ‘scafisti’.