Cassazione a Sezioni Unite Civili, n. 2273, del 30 gennaio 2018
Secondo l’interpretazione della Corte” la fattispecie disciplinare delineata dall’articolo 41 del codice deontologico vigente va intesa nel senso che, ove la controparte non sia assistita da alcun difensore, deve ritenersi che all’avvocato sia precluso ogni contatto, proprio perche’ la stessa si trova in una situazione di evidente vulnerabilita’ “.
Ciò in quanto le previsioni del citato articolo 41, commi 1 e 2 (i quali vietano all’avvocato di mettersi in contatto con la controparte che sia assistita da un collega e consentono al medesimo di avere contatti con le altre parti “solo in presenza del loro difensore o con il consenso di questi”) non vanno intese nel senso restrittivo che il motivo di ricorso in esame fa proprio.
Prevedere che, qualora la parte sia assistita da un difensore, l’avvocato puo’ avere contatti con essa solo in presenza o col consenso di questi, non equivale a riconoscere che, in caso di assenza di un difensore, tali contatti siano possibili senza alcuna limitazione. Il che e’ cio’ che il C.N.F. ha riconosciuto con la sentenza in esame, la’ dove ha sostenuto che cio’ che assumeva rilievo era, appunto, l’incontro in se’.
Di seguito si riporta il testo integrale della sentenza
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Primo Pres. f. f.
Dott. PETITTI Stefano – Presidente Sezione
Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere
Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere
Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere
Dott. SCARANO Luigi A. – Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 18360/2017 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso il (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
e contro
PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI MILANO, PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 61/2017 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata l’1/06/2017;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. CIRILLO FRANCESCO MARIA;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA MARCELLO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS).
FATTI DI CAUSA
1. (OMISSIS) presento’ al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano un esposto nei confronti dell’avv. (OMISSIS).
In quell’atto egli, premesso di essere padre di una bambina di dieci anni che era rimasta vittima di violenza sessuale da parte di un sacerdote difeso, in sede penale, dall’avv. (OMISSIS), lamento’ che il professionista si era recato presso di lui e, in considerazione della precarieta’ della sua situazione economica, gli aveva promesso aiuto a condizione che egli nominasse proprio difensore l’avv. (OMISSIS), di sua conoscenza.
Aggiunse il (OMISSIS) che, accettata l’offerta, egli aveva ricevuto un aiuto economico e che l’avv. (OMISSIS), da lui nominata difensore, l’aveva assistito fino all’incidente probatorio; momento nel quale egli le aveva revocato il mandato, essendo venuto a sapere che ella era assistente presso la medesima facolta’ universitaria nella quale l’avv. (OMISSIS) insegnava, ricoprendo anche il ruolo di preside.
Il (OMISSIS), quindi, ipotizzo’ che l’avv. (OMISSIS) si fosse approfittato del suo stato di bisogno.
Il C.O.A. di Milano, dopo aver invitato il professionista a dedurre in merito, con Delib. del 20 settembre 2012 apri’ un procedimento disciplinare a carico dell’avv. (OMISSIS), ipotizzando la violazione dei doveri di lealta’, correttezza e probita’ per i fatti sopra descritti.
All’esito dell’istruttoria dibattimentale, il C.O.A. irrogo’ all’avv. (OMISSIS) la sanzione della censura.
2. La pronuncia e’ stata impugnata dal professionista ed il (OMISSIS), con sentenza del 1 giugno 2017, ha rigettato il ricorso.
Ha premesso il C.N.F. che era infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dall’appellante. Poiche’, a norma del R.Decreto Legge 27 novembre 1933, n. 1578, articolo 51, il termine di prescrizione dell’azione disciplinare e’ interrotto dalla delibera di apertura del relativo procedimento e da altri atti propulsivi, a prescindere dalla notifica dei medesimi al professionista, la prescrizione quinquennale non era decorsa. Il procedimento era stato aperto, come detto, in data 20 settembre 2012, sebbene la relativa notifica all’interessato fosse avvenuta il successivo 30 aprile 2013; pertanto, dovendo la contestata condotta collocarsi in un momento imprecisato tra il marzo e l’aprile del 2008, il termine non era decorso.
Passando al merito, il C.N.F. ha osservato che non aveva rilievo, ai fini della fondatezza dell’accusa, il fatto che l’incontro tra l’incolpato ed il padre della bambina fosse avvenuto dietro iniziativa dell’uno o dell’altro, perche’ la circostanza importante era “l’incontro in se'”; cio’ in quanto il difensore di un sacerdote accusato di violenza sessuale mai avrebbe dovuto entrare in contatto con il padre della vittima, e comunque mai avrebbe dovuto proporgli la nomina, quale difensore, di una collega che collaborava con lui nella medesima universita’. Ragioni, queste, per le quali doveva affermarsi che l’avv. (OMISSIS) aveva valicato i limiti a lui imposti dalle regole deontologiche, le quali impongono all’avvocato di comportarsi con correttezza e probita’.
Quanto all’elemento soggettivo dell’illecito, il Giudice disciplinare ha rilevato che non poteva assumere peso la circostanza, allegata dall’incolpato, della propria buona fede, perche’ doveva ritenersi sufficiente, per l’esistenza dell’illecito, la volonta’ consapevole del comportamento, inteso come suitas. E, nella specie, l’incontro volontario con il (OMISSIS) presso l’abitazione dello stesso e l’indicazione del nome della collega erano elementi sufficienti a rendere fondata l’accusa disciplinare.
Quanto, infine, alla presunta sproporzione della sanzione, il C.N.F. ha osservato che il comportamento censurato, “pur non trovando una regolamentazione tipizzata nel codice deontologico”, integrava pacificamente la violazione dei doveri di probita’, dignita’, decoro e correttezza, cosi’ come previsti dall’articolo 9 del vigente codice di deontologia forense. Ora, in considerazione del principio di tipizzazione dell’illecito contenuto nella L. 31 dicembre 2012, n. 247, articolo 3, comma 3, nel caso di illecito atipico la sanzione deve essere tratta assumendo come riferimento le fattispecie simili; nel caso in esame, l’ipotesi di riferimento era quella di cui all’articolo 41 del nuovo codice deontologico che, a proposito dei contatti indebiti tra l’avvocato e le altre parti del giudizio, prevede la sanzione della censura, che il C.N.F. ha ritenuto “congrua” in rapporto al caso di specie.
3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. (OMISSIS) con atto affidato a quattro motivi.
Gli intimati non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Ragioni di ordine logico impongono di esaminare i motivi di ricorso cominciando dal terzo, nel quale si lamenta violazione del R.Decreto Legge n. 1578 del 1933, articolo 51, per erronea mancata dichiarazione dell’intervenuta prescrizione.
Dopo aver rammentato la cronologia degli eventi, facendo presente che l’incontro con il (OMISSIS) e’ da collocare nell’aprile 2008, il ricorrente precisa che, in caso di incertezza, il termine iniziale del decorso della prescrizione dovrebbe essere computato nel modo in cui riesca piu’ vantaggioso per l’incolpato. Nella specie, il primo atto interruttivo della prescrizione dovrebbe essere la notifica all’interessato dell’atto di apertura del procedimento disciplinare, avvenuta il 30 aprile 2013, quando il quinquennio era ormai trascorso. In tal senso sarebbe, secondo il ricorrente, la giurisprudenza dello stesso C.N.F. e della Corte di cassazione, non correttamente interpretati nella sentenza in esame, non potendo essere sufficiente la semplice deliberazione di apertura del procedimento disciplinare.
1.1. Il motivo non e’ fondato, alla luce delle considerazioni che seguono.
La decisione del C.N.F. oggetto di ricorso si e’ limitata, in ordine alla questione del decorso della prescrizione, a richiamare la sentenza 12 agosto 2002, n. 12176, di queste Sezioni Unite, secondo cui in tema di giudizi disciplinari nei confronti degli avvocati, il compimento di atti propulsivi del procedimento (nella specie, la delibera di rinvio a giudizio dell’incolpato) e’ idoneo a determinare l’interruzione della prescrizione dell’azione, ai sensi del Regio Decreto 21 novembre 1933, n. 1578, articolo 51, a prescindere dalla successiva notifica degli atti stessi al professionista. Orientamento, questo, confermato anche dalla sentenza 20 settembre 2013, n. 21591, delle medesime Sezioni Unite.
Il ricorrente censura il richiamo a quel precedente, sostenendo che esso sarebbe stato travisato dal C.N.F., perche’ in quella pronuncia il principio fu enunciato in riferimento ad un’ipotesi diversa, nella quale l’atto interruttivo era costituito non dalla delibera di apertura del procedimento disciplinare, bensi’ da quella che disponeva il rinvio a giudizio dell’incolpato, evidentemente gia’ informato degli addebiti a lui rivolti. Richiama, a sostegno della propria tesi, il piu’ risalente precedente di cui alla sentenza 8 febbraio 1977, n. 538, nel quale fu detto, invece, che il decorso della prescrizione e’ interrotto non dalla delibera del Consiglio dell’ordine che dispone l’apertura del procedimento disciplinare, bensi’ dalla notificazione della medesima all’interessato, quale atto idoneo a porre l’incolpato in condizioni di esercitare il proprio diritto di difesa con cognizione di causa.
1.2. La questione esige un chiarimento ricostruttivo.
Occorre prendere le mosse dalla sentenza 30 giugno 1999, n. 372, di queste Sezioni Unite la quale, in relazione alla disciplina della prescrizione di cui al Regio Decreto n. 1578 del 1933, articolo 51, ha spiegato che a tale istituto, che costituisce esercizio di una potesta’ punitiva di natura pubblicistica, non e’ integralmente applicabile la disciplina civilistica della prescrizione, dovendosi fare riferimento anche, nei limiti della compatibilita’, alla disciplina dell’interruzione del corso della prescrizione penale dettata dall’articolo 160 c.p., suscettibile di assumere rilevanza in tutta la materia punitiva. Sulla base di tali criteri la sentenza ha chiarito che la prescrizione in esame, decorrente dalla data di realizzazione dell’illecito (o dalla cessazione della sua permanenza), e’ soggetta, durante il procedimento amministrativo disciplinare davanti al Consiglio dell’ordine, ad interruzione con effetti istantanei non solo ad opera dell’atto di apertura del procedimento, ma anche di tutti gli atti procedimentali di natura propulsiva (per esempio, gli atti di impugnazione), o probatoria (per esempio, l’interrogatorio del professionista sottoposto al procedimento), o decisoria, secondo il modello dell’articolo 160 c.p.. Ha affermato quella pronuncia, in altri termini, che la prescrizione in tale materia non e’ regolata dal codice civile quanto, piuttosto, da criteri assimilabili a quelli dettati dal codice penale, posto che le sanzioni disciplinari a carico degli avvocati si ricollegano all’esercizio di una potesta’ punitiva in qualche modo paragonabile alla potesta’ punitiva pubblica nella materia dei reati (in tal senso, v. anche Sezioni Unite, sentenza 2 aprile 2003, n. 5072).
E’ alla luce di questo precedente che va letta la motivazione della sentenza n. 12176 del 2002 di queste Sezioni Unite citata dal C.N.F. nella decisione qui impugnata. Nella sentenza n. 12176, infatti, si e’ detto che il potere disciplinare e’ “espressione di una potesta’ “punitiva” di diritto pubblico che si ricollega ad una posizione di supremazia attribuita alla pubblica amministrazione in funzione della tutela di un interesse che trascende quello del soggetto nei cui confronti viene fatto valere e che presenta spiccate analogie con quella propria del diritto penale”. Ragione per cui quella sentenza ha affermato che l’idoneita’ a determinare l’effetto interruttivo va riconosciuta agli atti di “natura propulsiva”, con una logica che e’ in linea con il disposto dell’articolo 160 c.p..
Tutto cio’ premesso, si osserva che e’ esatto, come sostiene l’odierno ricorrente, che nella sentenza n. 12176 queste Sezioni Unite avevano a che fare con un caso nel quale l’atto interruttivo era costituito dalla delibera con la quale era stato ordinato il rinvio a giudizio dell’incolpato; ed e’ anche esatto che in quella sede nulla fu detto a proposito della delibera di apertura del procedimento disciplinare, interessata invece dal precedente di cui alla sentenza n. 538 del 1977.
Ritengono tuttavia queste Sezioni Unite che, in considerazione della ricostruzione complessiva del sistema disciplinare forense, il precedente costituito dalla risalente sentenza n. 538 del 1977 debba essere superato e che debba affermarsi che anche l’atto col quale viene deliberata l’apertura del procedimento disciplinare, siccome atto propulsivo del procedimento, e’ idoneo a determinare l’interruzione della prescrizione a prescindere ed indipendentemente dalla comunicazione o notificazione del medesimo all’interessato. Ed e’ il caso di ricordare, ad ulteriore conferma dell’approdo interpretativo qui raggiunto, che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 452 del 1999, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 160 c.p., nella parte in cui prevede che il corso della prescrizione sia interrotto dall’emissione del decreto di citazione a giudizio anziche’ dalla notifica del decreto stesso; in quell’ordinanza il Giudice delle leggi ha rilevato, tra l’altro, che “la conoscenza effettiva dell’atto interruttivo non condizione per il dispiegarsi delle possibilita’ difensive”, diritto di difesa si collega alla possibilita’ di contestare dell’accusa.
Cosi’ ricostruiti gli esatti termini del problema ed motivazione della sentenza impugnata, il terzo motivo privo di fondamento.
2. Con il primo motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione della L. n. 247 del 2012, articolo 3, comma 3, e del nuovo codice deontologico, sul rilievo che il fatto ritenuto in sentenza non sarebbe previsto come illecito disciplinare.
Rileva il ricorrente, dopo aver ricordato che la menzionata norma stabilisce il principio della tipicita’ dell’illecito disciplinare, che la sentenza impugnata avrebbe commesso un errore, individuando di fatto una nuova fattispecie di illecito. Se, da un lato, l’articolo 9 del codice non prevede alcuna specifica sanzione per la violazione dei doveri ivi indicati, la disposizione dell’articolo 41 del codice, che il C.N.F. ha richiamato, vieta all’avvocato di avere a che fare con le controparti munite di difensore senza l’autorizzazione di quest’ultimo. Nel caso in esame, al contrario, non c’era alcun rapporto tra colleghi, perche’ il (OMISSIS) non era munito di alcun difensore. Il ricorrente, quindi, rileva che la sentenza di condanna avrebbe, in concreto, creato una nuova fattispecie disciplinare ed aggiunge che la particolare situazione nella quale il padre della vittima si trovava aveva in lui generato la convinzione che il suggerimento del difensore fosse un atto “legittimo e opportuno”.
2.1. Il motivo contiene osservazioni esatte ma dimostra di non cogliere la ratio decidendi della sentenza impugnata nella sua globalita’.
Costituisce circostanza pacifica, sulla quale non occorre attardarsi, quella che nel nuovo ordinamento forense vige il principio della tassativita’ delle fattispecie disciplinari, secondo il disposto della L. n. 247 del 2012; la norma, infatti, parla di osservanza, “per quanto possibile”, del principio della tipizzazione della condotta.
Il ricorrente afferma che dall’articolo 41 del codice deontologico forense non potrebbe trarsi conferma dell’esistenza dell’illecito disciplinare riconosciuto dal C.N.F. e sanzionato con la censura. Non considera, pero’, che le previsioni del citato articolo 41, commi 1 e 2, i quali vietano all’avvocato di mettersi in contatto con la controparte che sia assistita da un collega e consentono al medesimo di avere contatti con le altre parti “solo in presenza del loro difensore o con il consenso di questi” – non vanno intese nel senso restrittivo che il motivo di ricorso in esame fa proprio. Prevedere che, qualora la parte sia assistita da un difensore, l’avvocato puo’ avere contatti con essa solo in presenza o col consenso di questi, non equivale a riconoscere che, in caso di assenza di un difensore, tali contatti siano possibili senza alcuna limitazione. Il che e’ cio’ che il C.N.F. ha riconosciuto con la sentenza in esame, la’ dove ha sostenuto che cio’ che assumeva rilievo era, appunto, l’incontro in se’, perche’ il particolare contesto di quell’incontro “avrebbe dovuto imporre al difensore del sacerdote, imputato di violenza sessuale su una minore, di astenersi da un qualsiasi contatto diretto con il padre della bambina, del quale gli era nota la situazione di disagio economico e sociale in cui viveva”.
In altri termini, la fattispecie disciplinare delineata dall’articolo 41 del codice deontologico vigente va intesa nel senso che, ove la controparte non sia assistita da alcun difensore, deve ritenersi che all’avvocato sia precluso ogni contatto, proprio perche’ la stessa si trova in una situazione di evidente vulnerabilita’. Ed e’ palese che tale era il contesto dell’odierna vicenda nella quale l’avv. (OMISSIS), secondo quanto accertato in fatto dal giudice disciplinare, era pienamente a conoscenza della situazione di difficolta’ del padre della bambina; difficolta’ che avrebbe dovuto consigliargli prudentemente di astenersi da qualsivoglia contatto con lui.
Non potendosi ritenere violato il principio di tipicita’ dell’illecito disciplinare, il motivo in esame e’ privo di fondamento.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’articolo 4 del codice deontologico, per insussistenza dell’elemento soggettivo.
Osserva il ricorrente che l’articolo 4 cit. prevede che la responsabilita’ disciplinare derivi dall’inosservanza delle regole di condotta dettate dalla legge e dalla coscienza e volonta’ delle omissioni. Richiamando alcune pronunce sull’argomento, il ricorrente rileva che, trattandosi di sanzioni che puniscono un certo comportamento, non e’ sufficiente la coscienza e volonta’ di cui all’articolo 42 c.p., comma 1. Cio’ che si richiede, invece, e’ la sussistenza del dolo, anche perche’ nel caso in esame l’avv. (OMISSIS) ricorda di avere sempre agito nella sicura persuasione che si trattasse di un comportamento deontologicamente corretto.
3.1. Il motivo non e’ fondato.
Deve essere infatti ribadita l’affermazione di cui alla recente sentenza 29 maggio 2017, n. 13456, di queste Sezioni Unite, secondo cui in tema di responsabilita’ disciplinare dell’avvocato, in base dell’articolo 4 del nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volonta’ consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, per cui vi e’ una presunzione di colpa per l’atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l’errore inevitabile, cioe’ non superabile con l’uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non e’ configurabile l’imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti. Ed e’ quindi evidente che nessun valore puo’ avere, ai fini che interessano, la presunta convinzione dell’incolpato di aver tenuto un comportamento deontologicamente corretto.
4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione del nuovo codice deontologico in ordine alla determinazione della sanzione.
Dopo aver ribadito che il fatto per il quale e’ stata pronunciata condanna non rientra nella fattispecie dell’articolo 41 cit., il ricorrente ricorda che, a norma dell’articolo 22, comma 3, lettera a), del codice stesso, nei casi meno gravi la sanzione della censura puo’ essere sostituita da quella dell’avvertimento. Data la particolarita’ dell’ipotesi, la sanzione meno grave sarebbe quella piu’ adatta al caso in esame.
4.1. Il motivo non e’ fondato.
Come queste Sezioni Unite hanno piu’ volte ribadito, nel procedimento disciplinare forense il potere di scegliere e di adeguare la sanzione alla gravita’ ed alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale e’ riservato agli organi disciplinari; per cui non e’ censurabile in sede di giudizio di cassazione la determinazione della sanzione inflitta all’incolpato (sentenze 23 gennaio 2004, n. 1229, 26 maggio 2011, n. 11564, e 1 agosto 2012, n. 13791).
5. Il ricorso, pertanto, e’ rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, atteso il mancato svolgimento di attivita’ difensiva da parte degli intimati.
Sussistono tuttavia le condizioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, da’ atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.