Con la recentissima sentenza n. 2535, depositata il 9 febbraio 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha definitivamente chiuso la vicenda che vedeva coinvolti i coniugi ** e l’** s.p.a. in riferimento all’acquisto delle famose OBBLIGAZIONI CIRIO.
La vicenda, apertasi nel 2004, ha finalmente visto confermato il diritto del cliente ad un oculato obbligo informativo da parte dell’istituto di credito.
Dopo una dettagliata ricostruzione del quadro normativo di riferimento la Cassazione ha infatti evidenziato la “pluralità degli obblighi facenti capo ai soggetti abilitati a compiere operazioni finanziarie (obbligo di diligenza, correttezza e trasparenza, obbligo di informazione, obbligo di evidenziare l’inadeguatezza dell’operazione che si va acompiere)” convergenti verso il fine unitario della segnalazione all’investitore della ‘non’ adeguatezza delle operazioni di acquisto di prodotti finanziari che si accinge a compiere (c.d. suitability rule).
D’altronde, si legge in motivazione, essendo le informazioni finanziarie complesse, costose e difficilmente reperibili, l’operato della banca deve essere altamente professionale, prudente e diligente (cfr. art. 21 D.lgs. n. 58 del 1998). Ed è di chiara evidenza che l’obbligo di informazione (contenuto nello stesso art. 21 D.lgs. cit.) e l’obbligo di segnalare la non adeguatezza dell’operazione e quindi di indicare “le ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione” (art. 29) confluiscono nell’unitario obbligo di diligenza e correttezza (Cfr. sullo stesso tema le Cass. nn. 17340/2008 e 22147/2010).
Né tantomeno può ritenersi, prosegue la Corte, che il precedente acquisto di altri titoli di rischio, da parte dell’investitore, sia di ostacolo all’operatività di detto obbligo.
Non a caso la qualità di operatore qualificato ha un preciso contenuto tecnico giuridico (art. 31, co.2, Regolamento Consob n. 11522 del 1998) che non può essere integrato dal mero riferimento all’entità del patrimonio dell’investitore ed alle sue attitudini imprenditoriali (Cass. 17333/2015).
I giudici delle legittimità osservano, poi, come la più recente giurisprudenza –cui i medesimi intendono dare continuità- riconosca la sussistenza di una responsabilità in capo a quell’intermediatore finanziario che abbia dato corso ad un ordine -ricevuto da un cliente non professionale- relativo ad un investimento particolarmente rischioso, vista la possibilità per l’intermediario di esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’art. 1727, co.1, c.c. (nello stesso senso Cass. 7922/2015 e 12262/2015).
Così il massimo organo della nomofilachia, rigettando il ricorso proposto dalla ** s.p.a., ha chiuso definitivamente la questione –con obbligo di pagamento, tra l’altro, delle spese di giudizio- confermando la pronuncia della Corte di Appello di Milano che condannava l’Istituto di credito al pagamento, in favore degli investitori, di euro 260.000,00 oltre agli interessi legali ed alle spese dei due gradi di merito del giudizio.