Un’interessante sentenza della suprema Corte di Cassazione ha meglio delineato i tratti distintivi tra il delitto di concussione e quello di induzione al indebita, in relazione al fatto che ha visto coinvolto un curatore fallimentare di una S.r.l. che abusando della propria qualità e dei poteri ad esso attribuiti, tentava di costringere un ex amministratore di società a consegnargli una determinata somma in cambio del deposito presso il Tribunale di una nuova relazione che avrebbe affievolito le responsabilità, soprattutto penali, del fallito.
Le Sezioni unite, risolvendo un contrasto interpretativo insorto nella giurisprudenza di legittimità, a seguito della riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, da parte della L. n. 190 del 2012, hanno individuato il discrimine fra il delitto di concussione (317 c.p.) e quello d’indebita induzione (319 quater c.p.), “ritenendo, in particolare, che il primo reato sussista in presenza di un abuso costrittivo del pubblico ufficiale, attuato mediante violenza o minaccia da cui derivi una grave limitazione della libertà di autodeterminazione del destinatario, che, senza ricevere alcun vantaggio, venga posto di fronte all’alternativa di subire il male prospettato o di evitarlo con la dazione o la promessa dell’utilità. Nella concussione di cui all’art. 317 cod. pen., si è quindi in presenza di una condotta del pubblico ufficiale che limita radicalmente la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo”.
Pertanto, il discrimen tra il concetto di costrizione e quello d’induzione va ricercato nella dicotomia minaccia/non minaccia. La minaccia non deve necessariamente concretizzarsi in espressioni esplicite e brutali ma può anche essere implicita, velata, allusiva, potendo, eventualmente, assumere anche la forma del consiglio, dell’esortazione, della metafora, purché tali comportamenti siano connotati da una carica intimidatoria analoga a quella della minaccia esplicita. La nozione d’induzione, invece, “esplicando una funzione di selettività residuale rispetto al concetto di costrizione, copre gli spazi non riconducibili a quest’ultimo, inerendo a quei comportamenti, pur sempre abusivi, del pubblico agente che non si materializzano nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il destinatario di fronte alla scelta obbligata tra due mali parimenti ingiusti”.
Ne deriva che il delitto di cui all’art. 319-quater cod. pen. consiste nell’abuso induttivo posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, che, con una condotta di persuasione, suggestione, inganno o pressione morale, condizioni in modo più tenue la libertà di autodeterminazione del privato, il quale, disponendo di ampi margini decisori, accetta di prestare acquiescenza alla richiesta della prestazione non dovuta, nella prospettiva di un tornaconto personale. Dunque la fattispecie d’induzione indebita, di cui all’art. 319-quater cod. pen., è caratterizzata da una condotta di pressione non irresistibile da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, che lasci al destinatario un margine significativo di autodeterminazione e si coniughi con il perseguimento di un indebito vantaggio per il privato (in conformità con SS.UU. n. 12228 del 24.10.2013).
Nel caso di specie e secondo i principi anzidetti, è risultato dalla motivazione della sentenza d’appello impugnata che il male ingiusto prospettato dall’imputato, pubblico ufficiale, alla persona offesa, ha determinato in quest’ultima un gravissimo stato di costrizione. L’imputato, infatti, aveva richiesto alla persona offesa il pagamento di un’ingente somma per la restituzione di una chiavetta USB, contenente la contabilità completa e corretta della società fallita e la mancata restituzione di tale chiavetta avrebbe avuto importanti conseguenze pregiudizievoli per la persona offesa, che avrebbe potuto subire un procedimento per bancarotta fraudolenta e una sanzione da parte dell’Agenzia delle entrate, per il mancato pagamento di alcuni debiti IVA.