Cassazione a Sezioni unite civili, 15 marzo 2016, n. 5072
Con la Sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno affrontato la controversa questione che vedeva coinvolta la normativa del lavoro a tempo determinato alle dipendenze di enti pubblici non economici nel contesto del lavoro pubblico contrattualizzato.
Tale normativa –che si articola in varie disposizioni mutate nel corso del tempo- ha da sempre posto le sue fondamenta sull’art. 97 della Costituzione il quale sancisce l‘accesso alle pubbliche amministrazioni mediante un pubblico concorso. Principio quest’ultimo da sempre considerato in conflitto con le dinamiche del lavoro a tempo determinato, tanto è vero che già l’art. 36, quarto comma, del D.lgs. n.29/1993 prevedeva il divieto –per le amministrazioni pubbliche- di costituire rapporti di lavoro a tempo determinato per prestazioni superiori a tre mesi (pena la nullità del rapporto instaurato e la responsabilità personale, patrimoniale e disciplinare di chi li aveva disposti).
Il successivo art. 22 D.lgs. n.80/1998 precisò poi che l’eventuale violazione delle disposizioni imperative, riguardanti appunto l’assunzione o l’impiego di lavoratori, non avrebbe potuto comunque comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni.
Quanto poi al risarcimento del danno la Corte evidenzia, non a caso, come la stessa qualificazione di illiceità della fattispecie abbia consentito la previsione a favore del lavoratore del diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Disciplina analoga che si rinviene nell’art. 36 d.lgs. n.165/2001, come modificata nel 2007 e nel 2008, ma rimasta invariata in riferimento ai suoi aspetti fondamentali appena sopra descritti.
Come precisa infatti il terzo comma del su citato art. 36, le PP.AA. non possono ricorrere all’utilizzo del medesimo lavoratore con più tipologie contrattuali per periodi di servizio superiori al triennio nell’arco dell’ultimo quinquennio (nonostante il legittimo ricorso a forme di lavoro flessibile che la L. n.80/2006 aveva ancorato alle “esigenze temporanee ed eccezionali” delle PP.AA.). Disposizione ‘speciale’ per la quale è stata esclusa l’abrogazione a seguito dell’emanazione del D.lgs. n.368/2001 in attuazione della Direttiva 1999/70/CE.
Principio questo ribadito, come evidenzia la Corte stessa in motivazione, da consolidata giurisprudenza (Cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 15 giugno 2010, n. 14350) secondo cui –appunto- nel pubblico impiego un rapporto di lavoro a tempo determinato in violazione di legge non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato (…) ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, in capo a quest’ultimo, essendo preclusa la conversione del rapporto, sussiste solo il diritto al risarcimento dei danni subiti.
Ancor più recentemente poi, con la L. n.125/2013, si è stabilito che i contratti di lavoro a tempo indeterminato posti in essere in violazione della medesima disposizione sono nulli e determinano responsabilità erariale.
D’altronde, anche la Corte Costituzionale, con la Sentenza n.89 del 27 marzo 2003, ha ritenuto che la disposizione di cui all’art. 36 cit. non violi gli artt. 3 e 97 Cost. nella parte in cui non consente che la violazione delle disposizioni normative.
Anzi, proprio in tale pronuncia, la Corte ha enunciato il criterio generale secondo il quale “(..) il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello (..) dell’accesso mediante concorso, ex art. 97 Cost., terzo comma, della Costituzione” .
In buona sostanza, i giudici costituzionali hanno escluso -in termini inequivocabili- l’esigenza di uniformità di trattamento rispetto alla disciplina dell’impiego privato, restando ad essa del tutto escluso il principio dell’accesso tramite concorso.
Relativamente poi al profilo risarcitorio è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5-6-7 della Legge n.183/2010, riconoscendosi all’uopo il risarcimento del danno dovuto per il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del diritto del lavoratore al riconoscimento della durata indeterminata dello stesso, assicurando al datore di lavoro la sua predeterminazione. Così come la Legge n.92/2012 ha chiarito che l’indennità risarcitoria limita l’ammontare del risarcimento del danno dovuto a seguito della illegittima apposizione del termine ad un contratto di lavoro nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale. Previsione, quest’ultima, ritenuta conforme alla Costituzione con la Sentenza Corte Cost. n. 226/2014 secondo cui la scelta di prevedere un’indennità forfettaria proporzionata risponde all’esigenza della tutela economica dei lavoratori nonché al bisogno di certezza dei rapporti giuridici delle parti coinvolte.
Resta pur sempre intatto –continua la Corte- il ricorso ai criteri indicati all’art. 8 della L. n.604/1966 i quali consentono di calibrare l’importo dell’indennità da liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende (come ad esempio la durata del rapporto, la gravità della violazione, le dimensioni dell’impresa).
Quanto alla compatibilità della disciplina interna con la normativa comunitaria, la Corte di giustizia dell’UE, ha in diverse occasioni ribadito che la clausola 5, punto 1) dell’accordo quadro non è autoapplicativa (ovvero non direttamente invocabile davanti ad un giudice nazionale) peccando la medesima di precisione.
Concluso l’excursus della normativa di riferimento e della giurisprudenza che la vede coinvolta è possibile affrontare il profilo del risarcimento del danno in caso di illegittimo o abusivo ricorso al contratto a termine e quindi interrogarsi sulla portata del danno risarcibile ex art. 36, comma quinto, D.lgs. n. 165/2001 citato.
Come precisa la Corte in motivazione “La norma non aggiunge altro e quindi deve farsi riferimento alla regola generale della responsabilità contrattuale posta dall’art. 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita, nella specie dal lavoratore, come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”.
In primis può ipotizzarsi, difatti, una perdita di chance dato che , qualora la PA avesse operato ‘legittimamente’ ovvero emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore avrebbe potuto parteciparvi ed anche risultarne il vincitore. Oppure, esso lavoratore, avrebbe potuto spendere le sue energie in altri impieghi alternativi ed a tempo indeterminato. Non di meno l’illegittima apposizione di termini, o meglio l’abuso della successione dei contratti a termine, causa al lavoratore “una situazione di precarizzazione” non potendosi in tal senso escludere che tale circostanza abbia causato la perdita –in termini di opportunità- di un’occupazione migliore.
In ogni caso –puntualizza il massimo organo nomofilattico- l’onere probatorio di tale danno grava interamente sul lavoratore, se pur secondo il regime delle presunzioni semplici. Ed è su tale argomento che la Corte è pervenuta a conclusioni non univoche. In effetti, mentre sul piano del diritto interno la prova del danno grava sul lavoratore, a livello comunitario la situazione è differente.
Ma proprio grazie ad una interpretazione adeguatrice ad opera della Corte può giungersi alla conclusione di un “rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico” che si concretizza in un esonero per quest’ultimo “dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo”.
La trasposizione di questo canone di danno presunto, continuano gli ermellini, “esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario (così già Cass. 30 dicembre 2014, n. 27481 e 3 luglio 2015, n. 13655) nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice.”
Ecco pertanto che, alla luce di tutte le considerazioni testé riportate, la Corte ha pronunciato il seguente principio di diritto: “Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, D. Lgs. 30 marzo 2001 n.165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, legge 4 novembre 2010, n/183, e quindi nella misura pari ad un’indennità omnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge 15 luglio 1966, n.604”.