Il reato di abuso di ufficio (art. 323 cod. pen.) è stato modificato diverse volte nel corso degli anni. Difatti nella versione originaria era denominato abuso innominato di ufficio, assolvendo, in tal senso, una funzione residuale di tutela e già con la prima modifica (avvenuta nel 1990) fu trasformato in quella che diventò poi la fattispecie cardine del più ampio novero dei reati contro la pubblica amministrazione. Ciò fu reso possibile grazie alla previsione del dolo specifico consistente nella finalità del conseguimento dell’ingiusto vantaggio o del danno quale elemento decisivo per l’integrazione del delitto in oggetto.
Diversamente dalle aspettative che aveva ingenerato tale riforma, però, la prassi giurisprudenziale finì con il tradursi in una pesante ingerenza del giudicante nella parallela sfera del merito amministrativo. Quindi, l’indagine in sede giudiziale si concretizzava in un sindacato relativo all’uso del potere discrezionale da parte della pubblica amministrazione. Così, per rimediare a tale disfatta, il legislatore, con la Legge n.234 del 16 luglio 1997, ha modificato ulteriormente la formulazione dell’art. 323 c.p., attualmente ancora vigente.
Chiarito l’iter formativo della previsione è possibile procedere ad una sua attenta analisi.
Il bene giuridico protetto coincide con il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione distinguendosi, sul punto, due diversi orientamenti giurisprudenziali. Il primo secondo cui il delitto avrebbe natura monoffensiva, essendo lesivo esclusivamente del buon andamento e dell’imparzialità della p.a., contrastato dal secondo per il quale persona offesa non sarebbe soltanto lo Stato, ma anche il privato che vede leso il suo interesse a non essere turbato nei suoi diritti costituzionalmente garantiti, riconoscendogli in tal senso una natura plurioffensiva.
Trattandosi inoltre di reato proprio, soggetto attivo potrà essere solamente un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio.
Quanto alla condotta, questa può consistere nella violazione di norme di legge o di regolamenti ovvero nella omessa osservanza di un obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.
Per violazione di legge deve intendersi ‘legge formale’ (legge costituzionale, legge ordinaria, legge regionale e della provincia autonoma) o atto normativo avente forza di legge (decreto legge o decreto legislativo).
Nei ‘regolamenti’ vanno invece ricompresi quei provvedimenti che, oltre ad essere generali ed astratti, hanno quel quid pluris utile a qualificarli come tali in base ad un criterio formale (per distinguerli da altri tipi di provvedimenti amministrativi come ad esempio gli atti di pianificazione e programmazione).
Si materializza così la necessaria preclusione del giudice sulla discrezionalità amministrativa al fine di salvaguardare il principio costituzionale della divisione dei poteri.
Tuttavia la giurisprudenza ha in diverse occasioni affermato che il reato di abuso d’ufficio risulta configurabile anche quando la condotta contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, sussistendo l’illecito anche in caso di sviamento di potere. Sul punto si sono espresse, nel 2011, le Sezioni Unite della Cassazione – sent. n. 155 del 29 settembre – le quali hanno ritenuto sussistente una violazione di legge anche quando la condotta del pubblico ufficiale risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito (..).
Sul punto va poi segnalato anche il recente intervento del Consiglio di Stato il quale, sull’art. 21-octies L.241/1990 (come modificato nel 2005), ha inteso specificare il significato da attribuire alla formula ‘violazione di legge’ in riferimento al vizio del provvedimento amministrativo escludendone l’annullabilità nelle ipotesi di vizio di natura meramente formale.
In conclusione, la posizione della giurisprudenza più recente, in ordine alla violazione di legge penalmente rilevante ai sensi dell’art. 323 c.p., resta ferma sull’assunto per cui la norma violata deve essere tanto intrinsecamente dotata di un sufficiente livello di significatività sul piano del disvalore criminale, quanto specificamente orientata a vietare il comportamento sostanziale del soggetto pubblico ed avere un qualche riflesso sul contenuto dispositivo della determinazione finale (Cass. pen., Sez. VI, 26 agosto 2008, n.34157).
Un altro quesito posto all’attenzione della giurisprudenza ha poi riguardato anche la sussistenza dell’abuso di ufficio nel caso di concessione edilizia rilasciata in violazione delle prescrizioni del piano regolatore generale e degli strumenti urbanistici (c.d. P.R.G.) essendo stata riconosciuta a quest’ultimo una natura mista – ovvero amministrativa e normativa – .
In un primo momento la giurisprudenza ne ha escluso la sussistenza ma recentemente si è registrato un cambiamento, posto che il mancato rispetto delle prescrizioni del P.R.G. altro non sono che violazioni della più ampia disciplina del settore (tra cui l’art. 31 L. 1150/1942, l’art. 4 L. 10/1977 come sostituita dal D.P.R. 380/2001).
In ultimo va altresì menzionato l’orientamento degli ermellini in riferimento alla violazione di ordinanze contingibili ed urgenti, atte a fronteggiare tutte quelle situazioni eccezionali ed imprevedibili, secondo il quale il giudice penale può sindacare la sussistenza dei presupposti nonché verificare i limiti connessi al potere di adottare tali ordinanze.
Analizzati i tipi di provvedimenti che rientrano nella definizione di legge o regolamento è possibile proseguire nella disamina del reato in oggetto.
Quid iuris nell’ipotesi di successiva abrogazione o modifica della norma di legge violata?
Potrà applicarsi al caso di specie la disciplina contenuta nell’art. 2 del Codice penale?
Al riguardo la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che la violazione di legge si pone come mero presupposto di fatto, con la conseguente inapplicabilità della regola contenuta nell’art. 2 c.p.
Tornando alla definizione contenuta nel reato di abuso di ufficio è facilmente individuabile anche una seconda condotta idonea ad integrare l’illecito. Trattasi dell’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. Con questa descrizione si è resa possibile l’individuazione del reato tanto quando l’agente omette di astenersi nei casi espressamente previsti, quanto, pur mancando una specifica previsione, il funzionario pubblico si trovi in una concreta situazione di conflitto di interessi.
Le condotte fino ad ora analizzate, come precisa l’art. 323 c.p. stesso, dovranno essere tenute nello “svolgimento delle funzioni o del servizio” con la conseguenza che, qualora il pubblico ufficiale agisca al di fuori di esse, il delitto in questione non potrà configurarsi.
Quanto all’evento, la norma ne richiede il suo verificarsi e può essere costituito sia da un ingiusto vantaggio patrimoniale che da un danno ingiusto.
Vantaggio che, secondo costante giurisprudenza, dovrà essere economicamente valutabile, senza tuttavia concretizzarsi necessariamente in una diretta dazione di denaro rientrando nel concetto anche l’accrescimento del patrimonio come conseguenza del presupposto del diritto di credito.
Al contrario, nulla precisando la legge in riferimento al danno, può dedursi che esso possa avere natura patrimoniale o non patrimoniale.
Come però già anticipato sopra, la riforma introdotta con la legge n.234/1997 ha apportato diverse modifiche alla precedente versione del reato de quo. Rinnovato, in modo significativo, è stato, in effetti, anche l’elemento soggettivo, configurandosi oggi il delitto di abuso di ufficio come reato di evento a dolo generico intenzionale.
All’uopo la giurisprudenza ha ritenuto insufficiente sia il dolo eventuale che il dolo diretto (si veda sul punto Cass. pen., Sez. VI, 24 febbraio 2004, n. 21091).